
I miei genitori erano semplici contadini. Si erano sposati il 15 dicembre 1923. Papà Vittorio (*1897) era di poche parole e di molti fatti, grande lavoratore, abbastanza severo, di sani principi cristiani, molto religioso e osservante: ci teneva che noi andassimo alla messa e ci comportassimo bene. L’educazione ricevuta in famiglia era severa, ma sana. Ricordo un episodio in cui papà si sfuriò contro di me, prendendomi a calci con le scarpe ferrate per il fatto che, oltre a disobbedire (dovevo venire a casa a far preparare il carro per il fieno), mi ero anche fermato lungo la strada a raccogliere noci (rubato!). Quella fu una lezione di fatti e di poche parole. Il papà era stimato nel paese. Dalla testimonianza di un anziano ho saputo che molti ricorrevano a lui per consiglio: egli li riceveva nella stalla, luogo discreto e riscaldato dagli animali.

La mamma Ester (*1902) proveniente da una famiglia molto numerosa, era anch’essa di poche parole, molto laboriosa e riservata. Non ricordo di aver ricevuto molte carezze da piccolo, invece ricordo una vita di lavoro duro e da me un po’ sfaticato nei campi. La mamma era molto più comprensiva e io talvolta la facevo arrabbiare con le mie disobbedienze. Ricordo una volta in cui mi correva dietro brandendo un legno, mentre io svelto facevo il giro attorno alla tavola e poi infilavo la porta della cucina fuggendo via.

Tutti e due i miei genitori erano molto praticanti: la frequenza alla messa non era soltanto domenicale, talvolta, quando potevano, andavano anche nei giorni feriali. Alla domenica dovevamo andare alla “dottrina” che veniva fatta dopo pranzo alle 13 o 14 per gli scolari, mentre gli adulti si fermavano in chiesa alla sera dopo la funzione. Era l’ora in cui noi ragazzi diventavamo padroni del paese deserto, essendo tutti gli adulti in chiesa per l’istruzione religiosa.Papà e mamma erano molto devoti: ricordo come papà facesse per ore le visite in chiesa in occasione della Porziuncola o del giorno dei morti per acquistare l’indulgenza plenaria “toties quoties”. Molte volte, penso durante il mese di maggio e di ottobre, si recitava il rosario in famiglia tutti insieme. Ogni anno si andava a piedi a qualche santuario. Così ricordo di essere partiti una mattina nel cuore della notte per andare alla Madonna dell’Aiuto a Segonzano in val di Cembra, oppure addirittura a Pinè (5 o 6 ore di cammino). Anche il santuario di Pietralba (Weissenstein, Waiziston) in provincia di Bolzano era meta di pellegrinaggio. Negli anni avanzati si andava in macchina. Ricordo come i miei genitori si fermassero a lungo a pregare e questo anche quando io, già religioso e prete, trovavo esagerato questo tempo di preghiera.

Purtroppo non posso dire di aver conosciuto bene i miei genitori perché a 10 anni ho lasciato la famiglia per entrare in Istituto e così i rapporti con i genitori erano diventati rari: qualche lettera che i miei facevano fatica a scrivere e alcune settimane (meno di un mese) d’estate che, dopo il noviziato si riducevano ad appena una settimana.
Dopo la loro morte (papà nel 1976 a 79 anni e mamma nel 1989 a 87 anni) riflettei a lungo sul significato e sul bilancio della loro vita. Erano persone semplici, non molto istruite, avevano fatto solo le elementari, ma di 8 anni come si usava allora quando il Trentino faceva parte dell’impero austro-ungarico. Mio papà conservava ancora alcuni quaderni della scuola. Dovetti riconoscere che la loro esistenza era stata ricca, non soltanto di figli, ma soprattutto di fede, di esempi concreti, di onestà, di buon senso, di tanto lavoro.

Avevano saputo allevare 10 figli trasmettendoci, più con l’esempio che con le parole, solidi principi di vita cristiana. Erano molto umili: quando tornavo a casa durante gli studi, papà si scusava con me perché non si sentiva all’altezza di insegnarci tante cose. Mi sono accorto, pur essendo stato in famiglia solo fino all’età di 10 anni, che rispetto ai miei compagni, sapevo molte più nozioni sulla natura e di pratica della vita, apprese da lui che non quelle ricevute (in modo teorico) dalla scuola. La sua era stata una scuola di vita vissuta e trasmessa con l’esperienza. Sia papà che mamma stimavano i due figli sacerdoti, avevano un sacro rispetto per noi. Il figlio che era con i Venturini lo hanno sempre chiamato con rispetto “Padre Angelo”, mentre me più semplicemente “Beppino”. Mamma gioiva quanto andavo a salutarla e diventava molto premurosa con me, facendomi capire che gradiva molto le mie visite. Quando le facevo osservare che gli altri avevano le loro famiglie, mi disse che noi eravamo “più figli degli altri” perché potevamo restare esclusivamente per lei.